Perché “RANGZEN”

Quando proposi ai ragazzi di chiamare la nostra band i “Rangzen” era il 1997. Francesco e Riccardo avevano 13 e 15 anni e già si erano esibiti in pubblico con me in un trio famigliare, magari un po’ patetico ma perdonabile per la tenerezza che facevano due ragazzini molto convinti alle prese con i Doors, i Beatles e il padre…Avevo visto il talento che nascondevano e l’incontro con Marco e Gogo, che avevano appena dismesso la Beatles band degli “Apple Jam” fu determinante per la cosiddetta “svolta”.
Ora con una batteria e un’altra chitarra eravamo una band VERA. Come chiamarci? Erano anni in cui si erano avvicendate in Europa colossali manifestazioni a favore del Tibet e spirava un forte vento di speranza per il destino di questo sfortunato e meraviglioso paese. Mentre di notte il mio cervello vagava tra le visioni di un futuro che allora mi appariva molto incerto anche per ragioni personali, ebbi la visione di noi che suonavamo a Dharamsala davanti al Dalai Lama e tanti tibetani.. Lo so che può far sorridere, ma nella mia vita tantissime cose, progetti, viaggi, svolte, sono partite da delle visioni repentine ma talmente concrete da apparirmi come un messaggio o una veggenza. Immediatamente mi venne in mente che avremmo potuto chiamarci semplicemente “Rangzen” (INDIPENDENZA) e dedicare la nostra musica alla causa del Tibet. Forse ci fu anche una inconscia componente strumentale e l’idea che questa caratterizzazione ci avrebbe rapidamente portato fuori dall’anonimato. Di fronte alle perplessità di qualcuno ebbe la meglio la mia abituale e travolgente determinazione del “veggente” perché sentivo fortemente che questo nome si sarebbe unito a tutte le altre cose che già da anni facevo per il Tibet e che il tutto il nostro futuro sarebbe stato il risultato di una grande sinergia. E così è stato. Dopo un anno eravamo a Zurigo al Tibetag, e poi a Rikon e, dopo tre anni, eravamo a Dharamsala a suonare davanti al Dalai Lama e 10.000 tibetani nel grande anfiteatro del Tibetan Children Village. Da allora sono state decine di concerti per il Tibet e la bandiera del Paese delle Nevi è campeggiata spesso sul nostro palco; e possiamo dire che quel poco che abbiamo fatto per i nostri amici tibetani ci è stato restituito “con gli interessi” in termini di relazioni umane, esperienze, emozioni e progresso artistico. Mentre oggi stiamo finalmente lavorando ad un album tutto di nostre composizioni, di cui tante dedicate al Tibet, voglio pubblicare qui un articolo che scrissi sull’Associazione Italia-Tibet di cui oggi sono presidente e da cui tutto cominciò nel lontano 1988.

  L’Associazione Italia Tibet

Un autunno già freddo, verso la metà degli anni ‘80, casa di Fosco Maraini a Firenze. Il gigantesco camino ospita alcuni sterpi e pigne del parco che, scoppiettando, emettono un gradevole tepore, un fumo denso, un aroma penetrante di resina. Il professore appoggia su un tavolinetto a lato della sua poltrona la Lettera 22 con cui ha
scritto ogni riga fino agli ultimi giorni della sua vita, prende un tè da un vassoio che ci ha appena portato sua moglie Mieko e dopo il primo sorso appena accennato dice..: “Vedi Claudio, noi tutti che amiamo il Tibet, la sua cultura, la sua gente straordinaria, dovremmo creare una associazione organizzata, con tanto di statuto, con una sede, un notiziario…Dovremmo aiutare i tibetani ad uscire da questa morsa repressiva, da questa cortina di piombo invalicabile, da questo muro di silenzio e indifferenza…”
“E magari tu saresti il presidente!” attacco io. “No, no, che presidente…Io potrei essere un consulente, uno che vi aiuta, ma la gestione deve essere in mano a voi giovani!”
Noi giovani! Già. Sembra ieri che eravamo i “noi giovani” e ci siamo ritrovati ora in un battibaleno in cui è successo tanto e allo stesso tempo niente, a quasi 52 anni dall’insurrezione di Lhasa.
La barba è un po’ imbiancata e il presidente di quell’associazione Italia-Tibet, vagheggiata nel lontano pomeriggio toscano, e concretizzata poi, nel 1988, assieme a Piero Verni, Vicky Sevegnani, Carmen Leccardi e un pugno di amici “tibetofili”, sono oggi io.
Oltre vent’anni per la Causa, “The Sacred Cause of Tibet”.


Il ritorno dal primo viaggio in Tibet del 1987 fu determinante per tutti noi nel riconoscere la necessità di fondare in Italia un vero “Tibet Support Group”: gli scontri di settembre, la legge marziale, le repressioni, le testimonianze dirette, nostre ma anche di tanti altri viaggiatori e appassionati che da anni speravano sia nell’apertura al turismo del Tetto del Mondo sia nell’apertura di Pechino verso una maggiore libertà e rispetto dei diritti dei tibetani, il cui paese era stato invaso e occupato dalla Cina nel 1950.
L’Associazione Italia-Tibet nacque con uno statuto ben preciso che riconosceva il Dalai Lama come rappresentante legittimo del popolo e della nazione tibetana e sosteneva il suo piano di pace in 5 punti presentato a Washington e perfezionato l’anno successivo a Strasburgo. Piano di pace che, di fatto, auspicava per il Tibet una forma di autonomia “genuina” e lasciava a Pechino la gestione della politica estera e della difesa rinunciando di fatto per la prima volta all’idea di indipendenza.
Da allora il Dalai Lama ha viaggiato il globo terracqueo in lungo e in ripetendo fino a perdere fiato la sua rinuncia

all’indipendenza (comunque diritto morale e giuridico di un paese illegalmente occupato) e nel chiedere per la sua gente almeno il rispetto della cultura, del diritto alla libertà religiosa, della lingua, delle tradizioni all’interno della Repubblica Popolare Cinese. Rinuncia non poco dolorosa per le migliaia di tibetani che avevano perso congiunti, uccisi o imprigionati dalla polizia cinese e dalle guardie rosse o che erano fuggiti in India alla ricerca di una nuova esistenza, lontani dalla patria ma vicini al loro riferimento spirituale e politico. Ciononostante Pechino ha continuato con protervia ad accusare il Dalai Lama di essere un separatista sotto mentite spoglie,

di parlare, secondo un linguaggio caro alla rivoluzione culturale, “con lingua biforcuta”, di essere sostenuto e strumentalizzato dagli imperialisti occidentali.

Oggi, 2009, la situazione appare senza sbocchi visto anche il fallimento totale dei “negoziati” tra tibetani e cinesi, andati avanti per sei anni senza un progresso concreto: di fatto, il dialogo è stato inesistente e si è tradotto in una serie d’insulti e aggressioni da parte cinese che ricordano molto la famosa storiella del “Lupo e dell’Agnello”.

In questi oltre ventitre anni di vita l’Associazione Italia-Tibet si è mossa sempre sul doppio fronte politico e umanitario. Attraverso un’instancabile attività di divulgazione, con seminari, mostre, meeting, rassegne, conferenze, eventi, l’Associazione ha contribuito in maniera decisiva alla presa di coscienza, nel nostro paese, del problema del Tibet da parte di un pubblico sempre più vasto.
Sul fronte umanitario la nostra Associazione ha svolto un ruolo di primo ordine nel contribuire a finanziare lo sviluppo dei TCV (Tibetan Children Villages), l’istituzione dei tibetani in esilio in India alla quale è deputata la salvaguardia della cultura e delle tradizioni del Paese delle Nevi.
Permettetemi in questa sede di ricordare alcune delle più importanti iniziative di cui siamo stati promotori, organizzatori e protagonisti. Nel 2000 grazie alla mia sollecitazione e a quella di Stefano Dallari, presidente della Casa del Tibet di Votigno di Canossa e allora nostro consigliere, Luciano Pavarotti accettò di dedicare il suo encomiabile Pavarotti&Friends ai bambini tibetani e cambogiani. Con i fondi del Pavarotti&Friends (oltre un milione di dollari…) fu costruita un’importantissima scuola professionale a Mussoorie, nello stato indiano dell’Uttar Pradesh. Fu questo l’anno in cui anche i Rangzen in ottobre andarono a suonare in India per il 40° anniversario del TCV.
Alcuni anni or sono abbiamo “adottato” la piccola scuola di Sumdho-Henle, sperduta nel Ladakh, vicino al lago Tsomoriri, e da allora, grazie a numerose iniziative, abbiamo raccolto diversi fondi: voglio ricordare “In Moto per il Tibet”, un motoraduno in alta Val Marecchia nel 2006, il Cardiolab 2007, con un gruppo di medici riminesi, concerti e donazioni di privati, enti e società.



Indimenticabile nel 2002 il Castagneto Day, gemellaggio culturale tra le tradizioni toscane e quelle di culture a rischio sul pianeta promosso dalla Global World Foundation di Franco Malenotti, che ospitò il Tibet e la stessa Jetsun Pema, sorella del Dalai Lama e allora presidente dei Tibetan Children Villages, per una cospicua raccolta fondi per il TCV di Leh.
Questi fondi furono recapitati in loco da Emerson Gattafoni e dallo scrivente realizzando anche un documentario per la Rai, “Eastern Road”, con un ampio capitolo dedicato ai TCV.


Ed è proprio parlando di Tibetan Children Villages, che, per concludere, vorrei condividere con voi alcune righe che scrissi tempo fa ricordando il mio incontro con “L’Infanzia del Tibet”.
Fu alla fine degli anni ’70, in Ladakh, in una località nei pressi di Leh chiamata Choglamshar.
Non avevo le idee molto chiare sulla situazione dei rifugiati tibetani e facevo fatica a capire la differenza tra loro e i locali ladaki. Quel viaggio, il primo in un territorio a cultura tibetana, costituì una delle mie prime “folgorazioni” giovanili per il popolo del Tibet e la sua triste vicenda storica, politica e umana.
Quando, sulla direzione di
Hemis Gompa, notai in prossimità della strada una serie di case basse in stile tibetano e con tante bandierine che garrivano alla brezza, ne fui molto colpito e mi resi conto che si trattava di un insediamento particolare, organizzato. Un villaggio? Un college? L’autista del bus disse semplicemente “TCV school…” Mi feci spiegare il significato della sigla e lo pregai di fermarsi subito. A piedi salii col fiatone dei 3700 metri lungo la strada fiancheggiata da un alto muro fino all’ingresso principale. Giovani voci lontane provenivano da casupole basse con le tipiche finestre bordate di nero. I “tarchò” sugli angoli di ogni edificio si agitavano al vento. Proseguii, curioso ed eccitato.
Si udivano ora canti perfettamente intonati e in un cortile centinaia di bambini di diverse età sembravano in piena ricreazione. Mi venne incontro una ragazza, una maestra, con un sorriso indicibile. Con un leggero inchino ci invitò ad accomodarci: tashi delek!
Avevo la mia Nikon F nella borsa e non vedevo l’ora di aggirarmi tra quei volti e quei sorrisi ma prima volli, e dovetti, ascoltare la storia del Tibetan Children Villages. La ragazza mi parlò della fuga dal
Tibet nel 1959 e dell’arrivo nell’umida, calda e intricata foresta dell’Arunachal Pradesh. Mi parlò dei cinesi e delle repressioni sanguinose, della fatica e delle morti lungo il tragitto. Congelamenti, amputazioni, infezioni. I tibetani, abituati alle grandi altezze e all’aria secca dell’altipiano, nel clima caldo umido del sub continente indiano si ammalavano e morivano come mosche Mi disse poi come il governo dell’India avesse assegnato ai profughi diversi insediamenti; alcuni erano ex campi di prigionia inglesi nell’ Himachal, altri lande desertiche nel Karnataka a sud dell’India.
 

I tibetani non avevano più nulla se non quello che erano riusciti a portare con sé e, come primo impiego, lavorarono come operai alla costruzione delle strade himalayane. Fino all’indipendenza dell’India, in tutta la catena dell’Himalaya non esistevano strade carrozzabili: i duemila chilometri di barriera invalicabile erano attraversati solo da antiche carovaniere che si arrampicavano su arditi sentieri fino a oltre 5000 metri di altezza. Il governo dell’India iniziò, negli anni ’60, a realizzare le prime vertiginose strade che si inerpicavano su per i

valichi del Rothang, dello Zoji la, a occidente, e del Natu La ad oriente. Qui migliaia di tibetani con le mani, martelli e scalpelli, spaccavano pietre e disegnavano sulle montagne quelle che da lontano sembravano solo piccole scalfitture ma che erano, di fatto, le prime vie di comunicazione percorribili da mezzi motorizzati.
Erano famiglie intere migrate su quelle ostili pendici. Gli uomini e le donne lavoravano tutto il giorno ma poco lontano dal cantiere si potevano scorgere delle ampie tende rimediate alla meglio sotto le quali stavano

decine di bambini a naso all’insù intenti ad ascoltare le parole di una giovane. Qualcuno aveva delle piccole lavagne. Altri addirittura dei piccoli quaderni, regalo di qualche personaggio locale. Era la nascita del Tibetan Children Villages. Fu l’allora giovanissima Jetsun Pema, sorella di Sua Santità il Dalai Lama, a iniziare l’organizzazione delle scuole dei piccoli profughi.
“Se perderemo la nostra cultura perderemo tutto”, disse a Pema il Dalai Lama. “La prima cosa che dobbiamo organizzare sono delle scuole per i nostri giovani”.
 
Le poche ore in quel TCV rimangono indelebili nella mia memoria. Il villaggio era stato costruito da poco e ospitava qualche centinaio di bambini, oggi arrivati a oltre 2000. Avevano bisogno di diverse cose e tutte essenziali, ma la dignità e la determinazione di quelle ragazze insegnanti dette anche “mamme” e gli sguardi vivissimi, intelligenti e sereni di quel piccolo popolo disperso al di là del suo confine naturale himalayano, facevano capire che l’essenza
del loro obiettivo sarebbe stato raggiunto contro qualsiasi avversità. Tornai al TCV di Leh diverse volte
da allora ed ebbi modo di fare amicizia con la stessa signora Jetsun Pema. Vorrei lasciare a una delle sue interviste la descrizione e il messaggio che proviene dal Children Villages.

 

Jetsun Pema è nata a Lhasa, la capitale del Tibet. Fu mandata in India nel 1950 e studiò prima al Convento di St. Joseph, a Kalimpong, e poi al Convento di Loreto, a Darjeeling, dove, nel 1960, conseguì il livello superiore del Cambridge. Nel 1961, si trasferì prima in Svizzera e poi in Inghilterra per completare i suoi studi. Fece ritorno in India all'inizio del 1964. Nel giugno di quell’anno, sollecitata da Sua Santità il Dalai Lama, assunse la responsabilità di dirigere il primo TCV “strutturato”, il Villaggio dei Bambini Tibetani di Dharamsala. Da allora fino al 2005 è stata lei la forza motrice del Villaggio e rimane la “madre” di migliaia di bambini tibetani poveri e orfani. I bambini, nella loro maniera spontanea, la chiamano "Ama La" (Madre Rispettata). Sotto la dinamica guida della signora Pema e della sua instancabile dedizione, unite al suo senso di urgenza e alla chiarezza di visione, il Villaggio dei Bambini Tibetani è cresciuto al punto di diventare, fra le istituzioni tibetane in esilio, quella che ha ottenuto i migliori risultati.
 
 
“Dal suo umile inizio, 40 anni fa” racconta Pema “il Tibetan Children's Village è oggi divenuto una comunità educativa integrata e prosperosa per i bambini tibetani bisognosi in esilio, così come per quelle centinaia che sono fuggiti dal Tibet negli ultimi anni. Ha creato delle filiali in India che si estendono dal Ladakh nel nord, a Bylakuppe nel sud, con oltre 14.000 bambini sotto la sua protezione.
Quarantacinque anni non sono certo un breve periodo nella vita di ognuno, né tanto meno nell'esistenza dei Tibetan Children's Villages.
Il TCV si rende conto della responsabilità che ha nei confronti del destino dei nostri bambini tibetani e della benevolenza delle migliaia di donatori e amici in tutto il mondo che lo hanno sostenuto in tutti questi anni. Oggi siamo fieri di vedere che molte delle persone dei nostri villaggi siano utili nella Comunità Tibetana per diverse capacità ma, allo stesso tempo, ci rendiamo conto che ci sono alcuni bambini ai quali non è andata così bene.
In considerazione di questo, sono stati fatti maggiori sforzi per migliorare di più la vita dei nostri bambini, consci delle lezioni e delle mancanze sperimentate in passato. Benché molto sia stato ottenuto, c'è ancora molta strada da fare per realizzare i nostri scopi e obiettivi, per provvedere ai bambini sotto la nostra protezione con le risorse necessarie e le opportunità di sviluppare le loro capacità al meglio. Come è stato evidenziato da Sua Santità il Dalai Lama nel messaggio per il nostro 35° anniversario: “la futura direzione del nostro programma sarà nel campo dell'educazione avanzata negli studi specializzati per soddisfare la necessità di risorse umane della comunità durante il nostro periodo di esilio e, molto più importante, quando verrà il nostro momento di ritornare in patria....”
Noi dobbiamo sforzarci di migliorare la qualità dell'istruzione dei nostri bambini e della loro educazione culturale e sociale, senza necessariamente gravare sulla semplicità del nostro esule stile di vita. Tutto quello che abbiamo conseguito non sarebbe stato possibile senza l'ispirazione costante e benedetta di Sua Santità il Dalai Lama, così come l'instancabile supporto e comprensione del governo indiano.
E, ovviamente, non saremmo riusciti a fare così tanto per i nostri bambini senza il continuo aiuto finanziario di tanti buoni amici nel mondo, specialmente il SOS KINDERDORF INTERNATIONAL, la spina dorsale del nostro supporto finanziario.
Non ultimo, dobbiamo ringraziare e ricordare le molte mamme, collaboratori e insegnanti, di ora e del passato, che hanno dato molto della loro vita e del loro duro lavoro, semplicemente per la gioia di vedere messa al sicuro una vita significativa per i bambini. Sappiamo che non siamo alla fine del nostro cammino e che c'è ancora molto da fare, così come Sua Santità (il Dalai Lama) ha affermato, "i bambini sono i semi del futuro Tibet".
Io mi appello a tutti - ai nostri garanti, alle agenzie donatrici e ai miei colleghi - per continuare ad essere al nostro fianco durante questo difficile periodo della nostra storia e di assisterci nell'educazione e nella cura dei bambini tibetani in esilio.”

 
Penso che una visita a uno dei tanti TCV disseminati negli insediamenti tibetani dell’India, racconti meglio di qualunque parola od immagine l’anima del Tibet di oggi. Un’anima indomita e compassionevole, legata alle proprie radici e alla propria patria ma con uno sguardo aperto verso il mondo moderno.

Cosa certamente diversa dal quel Tibet chiuso e feudale, spesso prigioniero di un clero a volte ottuso e conservatore nel senso peggiore del termine, che non ebbe la capacità di vedere i cambiamenti del mondo all’indomani del secondo conflitto mondiale e che in un certo senso fu anche corresponsabile della situazione attuale. I tibetani, nella loro visione cosmologica del samshara e dell’esistenza, parlano anche di karma e di azioni negative da “espiare” per spiegare la loro situazione di oggi.
Sul Tibet e la sua storia, piena di luci e ombre come tutte le storie dei popoli di questo mondo, si può dibattere per giorni. Forse però non ha neppure un grande senso. Quello che ha senso è invece prendere atto che la Cina, prima con la violenza e poi con i suoi modelli di sviluppo forsennato, non ha saputo conquistare e occupare il cuore e l’anima dei tibetani.
Un popolo di sei milioni di individui che evidentemente desidera impostare la propria esistenza su valori diversi. Essi oggi, a oltre cinquant’anni dall’insurrezione di Lhasa, trovano il coraggio quasi incosciente e comunque eroico, di sollevarsi e manifestare contro uno dei regimi autoritari più potenti del mondo. Certi di quello che li aspetta, carcere, torture, morte, gridano “Tibet Libero!” non solo a Lhasa, ma in tutto il Paese delle Nevi fino alle province orientali del Kham e dell’Amdo, divenute cinesi già all’indomani dell’invasione del 1950 e da l’anno scorso la loro esasperazione ha inizato ad esprimersi nel dramma delle auto immolazioni con il fuoco. Sono già trentacinque in tibetani martiri che hanno scelto questa morte atroce per gridare al mondo la loro fame di libertà e di diritti umani.
E’ un segno inequivocabile che i tibetani in Tibet non sono stati normalizzati. Questo spiega anche tutta la rabbia e la violenta reazione di Pechino, incapace di considerare i propri errori e fare quell’autocritica tante volte inflitta con la violenza nelle “sessioni di rieducazione” che sono la prassi anche ai giorni nostri.
Ai tibetani in Tibet va il nostro sostegno e la nostra amicizia per quello che la loro lotta, finora non violenta, rappresenta come valore universale. Ai tibetani esiliati in India, in Nepal, va il nostro aiuto materiale e il nostro sostegno perché continuino ad avere voce e perché la loro cultura, almeno nei suoi tratti essenziali, venga preservata.
Una cultura unica che, non ci stanchiamo mai di dire, appartiene a tutta l’umanità e che è in gran parte nelle mani di questi ragazzi sorridenti e tenaci, che difficilmente rinunceranno a lottare. Una lotta non certamente contro il popolo cinese, anch’esso vittima di vessazioni e soprusi da parte del regime di Pechino, ma una lotta sempre e comunque per l’affermazione della verità. “La verità è l’unica arma che abbiamo” ha sempre detto S.S. Il XIV Dalai Lama.
Claudio Cardelli